Ultimamente penso spesso alla parola fallimento. Sarà che sui social sembra sempre che nessuno fallisca mai, visto che tutti mostrano solo il bello della propria vita. Un’abitudine che comincia a infastidire, però, perché puzza di bugia.
Nelle storie dei libri e dei film facciamo fatica a empatizzare con i personaggi perfetti, e la stessa cosa accade nella vita, reale o digitale che sia. Non perché amiamo le sfighe altrui, ci mancherebbe, ma perché nessuno al mondo è perfetto. Nessuno al mondo è infallibile. E sapere che anche altri navigano nelle stesse acque tormentate è un conforto. Ci fa sentire meno soli, e quell’ostacolo che pensavamo insormontabile sembra quasi più facile da superare se sappiamo che qualcuno prova le nostre paure.
Il verbo fallire deriva dal verbo latino “fallere”, che significa ingannare, trarre in errore. Quindi in origine aveva un senso legato all’idea di deludere le aspettative. Ho pensato spesso al fallimento perché da scrittrice ipersensibile quale sono è un compagno di banco che non mi molla un secondo.
Soprattutto il timore di deludere le aspettative.
Perché ho difficoltà nel trovare un editore.
Perché non so se la mia carriera andrà bene come vorrei.
Perché mi sento una scrittrice a metà.
Perché i social mi fanno sentire come se non fossi abbastanza.
Perché negli anni ho progettato tante storie che non hanno visto la luce.
Perché sto scrivendo un altro romanzo e mi chiedo se riuscirò a raccontarlo come vorrei.
Perché sono un essere umano pieno di difetti.
Ma sto imparando a guardarmi come se fossi un personaggio, la protagonista della mia storia. E con lei provo un’empatia enorme, meravigliosa, inesauribile. Allora mi sento bene.
✑ Giulia
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